Le battaglie ambientali in difesa della laguna di Marano
ASPETTI GIUDIZIARI
Nella seconda metà del secolo scorso, lo stabilimento industriale di Torviscosa fu protagonista di numerose vicende giudiziarie. Oggetto delle controversie erano i danni causati alla laguna di Marano, e ai corpi idrici che vi confluiscono, dagli scarichi dell’impianto. Una parte del liscivio derivante dalla produzione della cellulosa veniva infatti scaricato nei canali a servizio dello stabilimento. Le sostanze versate causavano l’anossia dei corpi d’acqua, cioè la scomparsa dell’ossigeno disciolto, rendendo impossibile la vita acquatica.
Il quadro di riferimento giuridico nei primi decenni
Dal 1932, con il Testo Unico sulla Pesca (R.D.1604/1931), e ugualmente per tutte le normative successive in materia, gli stabilimenti industriali devono ottenere una speciale autorizzazione per scaricare in natura le acque di scarto dei loro processi produttivi. Gli impianti SAICI di Torviscosa furono soggetti a questa autorizzazione fin dalla loro entrata in esercizio nel 1938.
La prima autorizzazione, provvisoria, venne concessa allo stabilimento nel settembre del 1943. Ai sensi del Testo Unico, le autorità dovevano ordinare la realizzazione degli «eventuali provvedimenti atti ad impedire danni all’industria della pesca». Veniva quindi chiesto alla società di «Eseguire entro sei mesi […] il sistema di depurazione prescelto per la eliminazione delle sostanze organiche delle liscivie» [1].
Le autorità pubbliche non si fecero sentire per i successivi dieci anni. Fu solo nel gennaio 1952 che la prefettura di Udine contestò a SAICI di non aver costruito l’impianto di depurazione prescritto. Veniva rilevato che «tali inadempienze hanno causato inquinamento delle acque del fiume Aussa e l’impoverimento del patrimonio ittico nei bacini di Marano e Grado con conseguenti danni» [2]. Per ottenere il rinnovo dell’autorizzazione, SAICI progettò un impianto di depurazione delle acque di scarico. La Prefettura, con il successivo decreto di autorizzazione del gennaio 1953, prescrisse a SAICI di realizzare l’impianto entro quattro mesi [3].
L’impatto sulla pesca
La comunità di Marano Lagunare, nella cui economia è da sempre preminente la pesca, lamentò fin dal 1938 l’impatto negativo sulla laguna degli scarichi della SNIA di Torviscosa. Per diverse ragioni, tra cui la guerra e gli eventi che ne seguirono, per molti anni non venne presa nessuna iniziativa concreta. Fu la grave annata del 1949, quando i danni si manifestarono «in misura eccezionalmente grave», a spingere il Comune a valutare una causa di risarcimento danni [4].
Affidato l’incarico a un avvocato, si cercava un accordo stragiudiziale con SAICI, nella forma di un risarcimento che alleviasse le difficoltà in cui versava la popolazione maranese. Il sindaco chiese aiuto ai parlamentari del territorio e si cercavano incontri personali con Franco Marinotti, presidente SAICI, a Roma. Non si giunse però ad alcuna conclusione [5]. Era la fine del 1952.
Nel febbraio 1953 ottanta pescatori, vallicoltori e il comune di Marano fecero causa a SAICI davanti al Tribunale di Udine [6], chiedendo il risarcimento dei danni per la «distruzione del patrimonio ittico» causati dagli scarichi inquinanti.
I giudici nominarono consulenti d’ufficio tre professori universitari. Questi esperti, dopo aver assistito in tribunale all’assunzione delle testimonianze, svolsero indagini dal 1959 al 1962 e depositarono le loro relazioni. Intervennero anche i consulenti di parte nominati da SAICI, ma non riuscirono a invalidare le conclusioni a cui erano giunti gli esperti d’ufficio.
La sentenza di primo grado arrivò nel marzo del 1965. Il Tribunale dichiarò anzitutto che il Comune di Marano era titolare del ‘diritto esclusivo di pesca’ sulle acque della sua laguna – diritto che esercitava anche tramite cittadini appartenenti al Comune stesso [7]. Venne accertato che la laguna di Marano, per una superficie di circa un ottavo, era inquinata dagli scarichi industriali provenienti dallo stabilimento SAICI di Torviscosa attraverso il fiume Ausa-Corno. Tale inquinamento causava la distruzione e menomazione della fauna ittica, che non poteva vivere in quelle acque. Nelle zone dove maggiormente ristagnavano tali acque di scarico, il livello di ossigenazione dell’acqua era inferiore al livello minimo vitale per garantire la sopravvivenza della fauna, causandone l’asfissia e, nei casi meno gravi, un ritardo nello sviluppo.
Fu decisivo accertare che nelle altre zone della laguna, compreso il fiume Corno a monte della confluenza dell’Ausa, non si riscontrava questo fenomeno.
SAICI venne riconosciuta responsabile e fu condannata al pagamento di 107’160’000 £ a titolo di risarcimento danni in favore del Comune di Marano e dei pescatori, per il periodo che andava dal 1946 a tutto il 1963, più gli interessi maturati [8]. La società fu anche condannata a pagare una somma ulteriore, ogni anno fino al momento in cui sarebbero state realizzate opere idonee a eliminare gli effetti dannosi degli scarichi dello stabilimento.
La sentenza del Tribunale di Udine venne impugnata da SAICI, ma la Corte d’Appello di Trieste confermò quanto già deciso in primo grado. Il successivo ricorso per Cassazione non andò a buon fine e le decisioni dei giudici di Udine e Trieste divennero definitive nel marzo 1972.
I solleciti delle autorità
Intanto, nel maggio 1971, anche il Genio civile di Udine aveva richiamato SNIA per l’inquinamento causato dallo stabilimento di Torviscosa. Veniva contestata la violazione della Legge 366/1963, di tutela delle lagune di Venezia e Marano-Grado. Gli scarichi industriali dell’impianto di estrazione della cellulosa risultavano, infatti, ancora «sprovvisti dei necessari mezzi di depurazione» ed erano «fonte di inquinamento […] con grave pregiudizio per il patrimonio ittico e per l’incolumità della salute pubblica» [9]. SNIA rispose che era in funzione un bacino di decantazione per la separazione del materiale fibroso, funzionante «a tutt’oggi con nostra piena soddisfazione» [10].
I solleciti continuarono nel 1972, ora da parte del medico provinciale di Udine. Le analisi avevano rilevato un forte inquinamento, e alla società veniva concesso un anno di tempo per «provvedere a idonei processi depurativi delle acque di scarico» che rispettassero i limiti della circolare n.166/1971 del Ministero della sanità [11]. Nell’ottobre 1973 SNIA indicò che erano stati individuati gli interventi necessari a determinare un miglioramento degli scarichi, e che sarebbero stati gradualmente implementati.
La sentenza del 1974 del Pretore di Cervignano
Le vicende giudiziarie non riguardarono il solo aspetto risarcitorio, ma fu coinvolta anche la giurisdizione penale.
Nel marzo del 1973 venne istruita una causa contro i massimi dirigenti SNIA davanti al Pretore di Cervignano del Friuli. Venivano contestati due reati: uno previsto del Testo Unico sulla Pesca, a tutela della fauna ittica [12], e uno previsto dal codice penale, che puniva il versamento di sostanze che fossero moleste per le persone [13].
Analisi compiute nei primi mesi del 1973 avevano riscontrato un forte inquinamento delle acque interessate dagli scarichi dello stabilimento. Il colore marrone, causato dalla grande quantità di solidi sospesi, e la presenza di anidride solforosa «sottraevano ossigeno ad un ambiente che già ne risultava drammaticamente carente» [14]. Gli effetti erano, ancora una volta, la scomparsa della fauna ittica e un odore acre. Poco o nulla era cambiato da quanto accertato nelle sentenze degli anni precedenti.
La società non negò di esserne la responsabile, anzi, diede incarico a un professore dell’Università di Trieste affinché elaborasse rimedi per riportare gli inquinanti a livelli accettabili. Di fronte a questa manifestazione di impegno di SNIA, il Pretore dispose un’ulteriore perizia per accertare l’efficacia degli impianti che la società intendeva installare nello stabilimento. Il giudice rilevò l’«apprezzabile sforzo economico e tecnico per ricercare autonome soluzioni per addivenire, entro termini ragionevoli, ad una concreta riduzione del tasso di inquinamento».
La vicenda si concluse nel dicembre 1974 con l’assoluzione di tutti gli imputati, ‘perché il fatto non costituisce reato’. Con questa formula veniva accertato che i comportamenti contestati erano stati materialmente commessi, ma non venivano puniti come reato. Venne infatti riconosciuto un «generico stato di buona fede» dei dirigenti, anche in virtù della ‘prolungata tolleranza delle autorità’ e del ‘possesso di regolare autorizzazione’. Secondo il Pretore, gli imputati non avevano avuto alternative, e le loro iniziative non dovevano essere valutate negativamente «solo perché orientate anche alla sopravvivenza industriale e produttiva». Molti sostennero che non si potesse parlare di ‘buona fede’, considerando gli esiti della precedente causa civile, che sembravano essere stati ignorati dal giudice [15].
L’inquinamento da scarico di liscivio continuò nei decenni successivi.
La Legge Merli
Soffermandosi a osservare la natura dei reati contestati a SNIA nel 1973 si nota il carattere frammentario della disciplina allora in vigore. Le leggi tutelavano singoli aspetti e utilità specifiche dei corpi d’acqua, come la possibilità di pescare e l’assenza di odori molesti.
La prima normativa organica per la tutela delle acque entrò in vigore solo nella seconda metà degli Anni Settanta, la cd. ‘Legge Merli’ (legge 10 maggio 1976, n. 319). Essa stabiliva limiti massimi di concentrazione delle sostanze versate e imponeva che ogni interessato ottenesse un’autorizzazione allo scarico. La violazione di queste prescrizioni costituiva reato.
SNIA presentò richiesta di autorizzazione all’Amministrazione provinciale di Udine. La Provincia non rispose mai e l’autorizzazione si intese concessa in virtù del meccanismo di silenzio-assenso previsto dalla stessa legge [16].
Le vicende degli Anni Ottanta
La Legge 24 dicembre 1979, n. 650, trasferì alle regioni la competenza ad autorizzare i lavori di adeguamento degli scarichi ai nuovi standard della Legge Merli.
Il 27 febbraio 1980, SNIA (che in quell’anno cambiò il proprio nome in “Chimica del Friuli S.p.A.”) chiese alla Regione l’autorizzazione ad attuare il piano di adeguamento degli scarichi. La Regione rispose positivamente il 26 maggio 1980.
Seguì una ulteriore sentenza penale del Pretore di Cervignano nel 1983 [17]. I dirigenti di Chimica del Friuli vennero assolti dall’imputazione di danneggiamento perché le analisi compiute nel giugno 1983 erano risultate in linea con la ‘Tabella C’ della Legge Merli. Queste ‘tabelle’ realizzavano un progressivo innalzamento degli standard qualitativi delle acque versate. Gli standard più severi, previsti dalla ‘Tabella A’, entrarono in vigore il 1° marzo 1986.
Nel 1984, SNIA indicò di aver abbandonato il progetto di adeguamento degli scarichi dello stabilimento cellulosa agli standard della ‘Tabella A’. Diceva la società: «i tempi di realizzazione appaiono non realistici, anche per la mancanza di adeguati strumenti di ricerca» [18].
Ulteriori analisi del 1987 e 1988 mostrarono che continuava a persistere un forte inquinamento [19]. Non era cambiato molto dagli Anni ’60. Lo stabilimento continuava a scaricare sostanze che impedivano la vita acquatica e venivano sistematicamente superati i valori di accettabilità imposti dalla Legge Merli.
Visti i risultati delle analisi delle acque, il Pretore di Cervignano chiese al sindaco di Torviscosa quali provvedimenti avesse adottato in merito (8 luglio 1988). Il sindaco rispose che si stava attendendo la realizzazione del nuovo collettore fognario della Bassa Friulana, il cd. ‘tubone’ (6 agosto 1988) [20].
Il Pretore sollecitò nuovamente il sindaco, indicando che la revoca dell’autorizzazione allo scarico sarebbe stato un atto dovuto (7 ottobre 1988). Ricevette la medesima risposta: si stava attendendo l’entrata in funzione del tubone (11 novembre 1988).
La sentenza del 1991 del Pretore di Cervignano
Nel marzo 1989 il sindaco di Torviscosa ricevette una comunicazione giudiziaria dalla Pretura di Cervignano, come già era giunta ai dirigenti di Chimica del Friuli. A tutti loro veniva imputato il mancato rispetto dei limiti previsti dalla ‘tabella A’ della Legge Merli [21].
La sentenza di primo grado arrivò nel settembre 1991. Secondo il Pretore, ci si trovava in presenza «non di fatti episodici […] bensì di fronte a eclatanti e pluriennali scarichi eccedenti in misura notevolissima i limiti consentiti». Il problema dell’inquinamento, indica la sentenza, «è sempre stato connaturato alla stessa natura del processo produttivo, e la sua soluzione passa attraverso delle scelte di fondo della società, sia in materia di risorse da stanziare […] sia in ordine ad eventuali modifiche nei cicli di lavorazione».
Al sindaco era invece contestata l’omissione degli atti necessari a risolvere la situazione. Sosteneva il giudice: «egli era tenuto, in qualità di autorità sanitaria, ad adottare tutti gli interventi necessari ad eliminare il danno derivante dall’inquinamento, poiché l’ordinamento non gli consentiva di comportarsi diversamente».
Tutti gli imputati, condannati in primo grado e in appello, vennero però assolti nel 1994 in grado di Cassazione: l’amministratore delegato per prescrizione del reato; il presidente della società e il sindaco per ‘non aver commesso il fatto’.
Conclusione
Il ‘tubone’ venne infine realizzato. Entrò in funzione nel febbraio 1992 ed è operativo ancora oggi. Ma l’impianto cellulosa del polo di Torviscosa era stato chiuso pochi mesi prima, nel novembre 1991, lasciando sottoutilizzata la nuova infrastruttura.
Le vicende qui esposte mostrano chiaramente il complesso e delicato bilanciamento tra l’esigenza del rispetto ambientale e le istanze economiche e sociali.
Si può affermare, senza paura di essere smentiti, che l’importanza occupazionale dello stabilimento SNIA sul territorio ritardò i necessari interventi ambientali e contribuì alla prolungata tolleranza delle autorità pubbliche.
Se è vero che guardare al passato aiuta a decidere meglio per il futuro, le vicende del polo industriale di Torviscosa richiamano alla necessità di rispettare la sostenibilità in tutte le sue tre dimensioni: economica, e sociale, e ambientale.
Note
- [FG 1943] Decreto del Prefetto di Udine n. 20036/III del 24 settembre 1943.
- [FA 19520125] Prefettura di Udine, Prot. n. 4287/III 25 gennaio 1952, Inquinamento del fiume Aussa e impoverimento del patrimonio ittico, in: ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI TORVISCOSA, Carteggio amministrativo (1952), Cat. XI, Classe 2.
- [FA 19530107] Prefettura di Udine, Prot. n. 362/III 7 gennaio 1953, in: ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI TORVISCOSA. Nel decreto di autorizzazione veniva espressamente indicato che «l’immissione di tali rifiuti, giusto le approfondite ed accurate indagini, svolte dal Laboratorio di Igiene e Profilassi di Udine e dallo Stabilimento Ittiogenico di Brescia, provoca un impoverimento delle acque con conseguente impoverimento del patrimonio ittico delle lagune di Marano e Grado […]».
- A ricostruire le tappe di una storia iniziata diversi anni prima è una relazione del sindaco, allegata alla delibera del Consiglio comunale di Marano n. 20 del 14 marzo 1954.
- A causa delle continue assenze di Marinotti, però, non fu possibile giungere ad alcuna conclusione. Il sindaco riportava che «Improvvisamente Fonzo mi scrisse che il Marinotti era sparito da Roma proprio alla vigilia del giorno stabilito per la riunione decisiva, nella quale cioè si doveva stabilire ormai soltanto l’ammontare e la forma del risarcimento».
- Il Tribunale di Udine si dichiarò competente a trattare le pretese di risarcimento dei pescatori e del Comune, ma non le richieste dei vallicoltori. Questi ultimi, che utilizzavano l’acqua della laguna per alimentare le loro valli, agivano in giudizio invocando l’articolo 844 del codice civile, che può fondare la richiesta di un indennizzo, concetto differente da quello di ‘risarcimento’. L’articolo 844 cerca di bilanciare le esigenze delle attività industriali e la proprietà privata di terzi. Ai terzi spetta di ricevere un indennizzo quando le immissioni che causano molestie o limitazioni del diritto di proprietà – e che non possono cessare perché necessarie alla produzione – risultino intollerabili. Questo accertamento era di competenza del Tribunale delle acque – cui fu rinviata la causa.
- Il Tribunale di Udine prima, e la Corte d’appello di Trieste poi, dichiararono che il Comune di Marano e i pescatori godono di un «diritto esclusivo di pesca, diritto reale soggettivo, di natura patrimoniale, liberamente trasferibile e negoziabile, e pertanto tutelato dalla legge contro ogni attentato o atto lesivo altrui».
- L’ammontare del risarcimento fu stimato dal Tribunale in via equitativa. I giudici quantificarono il danno sulla base di quanto indicato nella relazione degli esperti e nei documenti forniti dai pescatori di Marano. Venne stimata una perdita di 130 quintali di pescato all’anno per il periodo 1946-1955, e 260 quintali all’anno nel periodo 1956-1963.
- [FA 1970_1] ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI TORVISCOSA, Controllo ambientale, Tutela delle acque, b. 6, fasc. 9, Indagini del Magistrato delle acque del Genio civile di Udine sugli scarichi industriali. La normativa di riferimento era la Legge 5 marzo 1963, n. 366, “Nuove norme relative alle lagune di Venezia e di Marano-Grado”, in particolare gli articoli 3, 5, 7, 10 e 30.
- [FA 1971_3] ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI TORVISCOSA, Controllo ambientale, Tutela delle acque, b. 5, fasc. 5, Snia Viscosa: richiesta all’esercizio degli scarichi industriali.
- [FA 19720518] ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI TORVISCOSA, Controllo ambientale, Tutela delle acque, b. 7, fasc. 6, e [FA 19711011] Ministero della Salute Pubblica, Circolare n. 166.
- Articolo 6 del T.U. Pesca (R.D. 1604/1931): «è vietato di gettare od infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire od uccidere i pesci e gli altri animali acquatici. […] si applicano, congiuntamente od alternativamente, l’arresto da 10 giorni a 6 mesi e l’ammenda da L. 500 a L. 2000».
- Articolo 674 del codice penale: «chiunque getta o versa […] cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone […] è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a lire duemila».
- Le analisi indicavano un superamento di diversi limiti di accettabilità degli scarichi industriali, secondo una circolare del Ministero della sanità del 02/07/1973: l’odore acre (non doveva essere causa di molestie); il colore bruno (non doveva essere percettibile); i solidi sospesi; i valori di BOD5 e COD (indicatori indiretti della presenza di ossigeno nell’acqua).
- Si veda il parere reso dall’avvocato Piero Zanfagnini al Comune di Torviscosa, in [FA 1977_1].
- Per approfondire, vedi sezione “Processi di bonifica”.
- [FA1980_1].
- [FA 1984_1].
- [FA_1987_1] e [FA_1988_1].
- [FA_1988_1].
- [FA_1989_1]. Si veda anche il comunicato stampa del Comune di Torviscosa (26 maggio 1989) e la lettera dell’assessore regionale all’ambiente che intervenne a difesa dell’operato dell’Amministrazione comunale (21 giugno 1989).