Le battaglie ambientali in difesa della laguna di Marano
PROCESSI DI BONIFICA
Dalla Legge Merli al "Tubone"
Il 10 maggio 1976 entra in vigore la cosiddetta Legge Merli[1] riguardante la tutela delle acque. Per la prima volta in Italia vengono normati gli scarichi industriali e civili in fogne, corsi d’acqua e sul suolo. Mentre alle Regioni viene affidato un ruolo di indirizzo tramite la redazione di Piani Regionali per il Risanamento delle Acque, alle Province è demandato il compito di censire tutti gli scarichi e di vigilare sull’effettivo rispetto della normativa da parte di privati e imprese. La nuova legge inoltre, all’articolo 15, prevede che le imprese che effettuano scarichi debbano richiedere un’autorizzazione alla Provincia. Nello stesso articolo, però, viene esplicitato che, qualora tale ente non rispondesse entro un tempo massimo di sei mesi, si applicherebbe la clausola del cosiddetto silenzio-assenso, che permetterebbe di ottenere in maniera automatica l’autorizzazione.
Il 10 agosto, in adempimento a questa legge, la SNIA invia la propria richiesta di autorizzazione[2] allo scarico in tre punti, di cui due nel fiume Taglio e una nel canale Banduzzi. Non ricevendo alcuna risposta nei sei mesi successivi intenderà applicabile la clausola del silenzio-assenso.
Nel novembre 1977[3] la SNIA comunica alla Provincia la variazione di alcuni impianti, esplicitando che essa avverrebbe in attuazione della legge Merli, sebbene tale variazione non comporti alcun miglioramento dal punto di vista della contaminazione delle acque, ma solo l’ammodernamento di impianti non più efficienti dal punto di vista produttivo. Infatti, è la stessa azienda, nonostante l’impegno contro l’inquinamento ribadito in varie sedi, a mettere per iscritto che, a seguito dei lavori previsti, «la situazione pregressa degli scarichi idrici […] non subirà alcuna variazione quanto all’ubicazione, alla portata ed alla qualità degli effluenti»[4], dimostrando così attenzione solo per ciò che riguarda la produttività dell’impianto.
Nel 1980, quella che ormai è diventata la Chimica del Friuli, inizia a svolgere i lavori di adeguamento degli impianti alla legge Merli, la cui scadenza viene fissata per il 1° di settembre dell’anno seguente, data alla quale l’azienda però domanderà una proroga annuale adducendo motivazioni «sia di ordine tecnico che finanziario»[5].
Il 13 aprile 1984, l’azienda presenta al Sindaco di Torviscosa un progetto di modifica[6] del proprio piano industriale chiamato “Proposte per un piano di sviluppo e investimenti – periodo 1983-1988”[7] e redatto solo un anno e mezzo prima. Dietro questa modifica, termine eufemistico per definire il taglio dell’adeguamento alle norme in materia di inquinamento emanate nel 1976, ci sarebbero i tempi “non realistici”[8] di tali progetti. L’eliminazione totale dei programmi ambientali viene tuttavia tacitato con il vago impegno a proporre “altre soluzioni non appena i tempi saranno maturi”[9]. Pertanto, la Chimica del Friuli riconosce in maniera ufficiale l’inadeguatezza dei propri scarichi rispetto a quanto stabilito dalla legge e riferisce che non ha intenzione di fare nulla per rientrare nei limiti ammessi dalla normativa, tutto ciò a otto anni dall’entrata in vigore della Legge Merli.
Essendo quindi persistente il problema dell’inquinamento, nel 1987, la Regione istituisce un nuovo ente al fine di ripulire le acque reflue dal ciclo di produzione della cellulosa prima del loro sversamento in laguna: il Consorzio Depurazione Acque Bassa Friulana, successivamente denominato Consorzio Depurazione Laguna.
Il progetto iniziale prevede di scaricare i liquidi depurati a sei chilometri al largo rispetto all’isola di Sant’Andrea, tramite un tubo sottomarino dal diametro di 1,2 m, motivo per il quale l’intero impianto verrà informalmente chiamato “Tubone”.
I lavori, però, man mano che procedono:
fanno lievitare i costi sia attraverso i meccanismi della revisione prezzi, sia con la ridefinizione tecnica del progetto. L’originario finanziamento di 66 miliardi, stanziato nell’86 sui fondi Fio, sale a 76 con la ridefinizione di alcuni tracciati dei collettori principali; a 115 miliardi nel ’90 per la messa in opera di un impianto termodistruttore […]. Il terzo aggiornamento elevò il costo a 137 miliardi, per l’adeguamento dell’impianto di depurazione su tre linee e l’installazione di un sistema di telecontrollo. Poco dopo (siamo nel ‘91) la cifra schizzò a 146 miliardi perché si ritenne necessario l’approntamento di una vasca di ispessimento e disidratazione meccanica. Infine nel ’92, l’ultima impennata, a 156 miliardi.[10]
Il problema principale è che l’impianto, nonostante sia stato costruito in base ai bisogni dell’azienda, risulta sottodimensionato e inadatto: essa continua infatti a sversare 10 milioni di metri cubi di liquami all’anno nei corsi d’acqua della zona in quanto l’impianto di depurazione non è autorizzato a processare liquami contenenti mercurio, e, se anche lo fosse, non potrebbe gestire un carico di lavoro così ingente, tenuto conto che gli altri scarichi convogliati nelle sue vasche ammontano già alle 6 milioni di tonnellate[11].
Il risultato è che, nonostante i più di 150 miliardi di lire spese per il Tubone, l’azienda continua a sversare direttamente nei corsi d’acqua i liquami al mercurio, senza alcuna purificazione.
Allo stesso tempo, paradossalmente, si verifica un sottoutilizzo dell’impianto: a causa della chiusura nel 1991 di parte dei processi produttivi della Caffaro, in particolare quello della cellulosa, il depuratore lavora pochi liquami rispetto alla quantità necessaria per essere davvero efficiente, generando ogni anno un passivo di circa tre miliardi di lire[12].
Nel tentativo di ovviare a questo problema, viene deciso di allacciare gli impianti fognari di alcuni comuni della Bassa, così da utilizzare il depuratore al massimo della sua capacità. Nel 1995 vengono allacciati Carlino e Marano, mentre negli anni successivi anche Cervignano, Muzzana, San Giorgio di Nogaro e Torviscosa. Di fatto questa decisione, però, scarica sulle spalle dei contribuenti il progetto fallimentare messo in piedi per depurare gli scarichi dell’industria. Infatti, sarà obbligatorio allacciare ogni singola abitazione al Tubone, al fine di convogliare verso di esso tutti gli scarichi fognari, con importanti costi per le famiglie coinvolte.
Nonostante questa manovra, però, il Tubone si regge grazie a continui stanziamenti della Regione, la quale, fino al 1997, copre con fondi propri i passivi del Consorzio. Per questo, negli anni successivi, al fine di far quadrare i conti, i dirigenti del Consorzio che gestisce il Tubone, decidono di far arrivare all’impianto anche rifiuti provenienti da fuori regione.
Nel 1999, nonostante le iniziali smentite da parte dei dirigenti consortili, grazie alla denuncia di Mareno Settimo, allora consigliere comunale a Torviscosa, si viene a sapere che il Tubone ha iniziato a smaltire anche rifiuti provenienti dal Sud Italia, in particolare dallo stabilimento chimico di Manfredonia[13]. Sorgono quindi molte domande sulla liceità di tali conferimenti e sull’adeguatezza degli impianti consortili al loro trattamento.
La direzione del Consorzio tenta di difendersi utilizzando le necessità economiche legate alla gestione dell’impianto, ma la faccenda è talmente scottante che nell’aprile 1999 anche i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico (Noe) vogliono vederci chiaro e, con un blitz, sequestrano alcune autobotti contenti liquami pronti a essere smaltiti a San Giorgio di Nogaro.
Le indagini culminano, quindi, in un avviso di garanzia per tre persone, tra cui Gianfranco Turchetti presidente del Consorzio, imputate di smaltimento di rifiuti in assenza di autorizzazione o di autorizzazione illegittima[14].
Nel febbraio 2003 vengono poi posti sotto sequestro due parti del Tubone: l’essiccatoio fanghi e l’impianto chimico-fisico. Ciò che viene contestato è che tali impianti abbiano funzionato, fino ad allora, l’uno grazie a una autorizzazione provinciale illegittima e l’altro pur in mancanza di Valutazione di impatto ambientale[15].
Il 13 dicembre 2010 Gianfranco Turchetti, presidente del Consorzio, e altri imputati saranno ritenuti colpevoli di traffico illecito di rifiuti e di danneggiamento aggravato nei confronti del «mare territoriale, il fondo e il sottofondo marino […] circostante lo scarico a mare degli impianti del Consorzio Depurazione Laguna»[16] avendone inquinato «i sedimenti con sostanze tossiche e pericolose bioaccumulabili e compromettendo l’ecosistema marino»[17].
[1] Legge n° 319/1976 “Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento”
[2] Archivio Storico del Comune di Torviscosa, Controllo ambientale, Tutela delle acque, b. 5, fasc. 6
3 Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Archivio Storico del Comune di Torviscosa, Controllo ambientale, Industria Chimica del Friuli, Comunicazioni amministratore delegato, b. 10, fasc. 2
[7] Ibidem
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] “Messaggero Veneto” 17 febbraio 1994.
[11] “Messaggero Veneto” 9 febbraio 1997 e “Il Gazzettino” 7 febbraio 1997
[12] “Messaggero Veneto” 17 febbraio 1994.
[13] “Il Piccolo” 23 ottobre 1999
[14] “Messaggero Veneto” 29 novembre 2002. Successivamente verrà contestato anche il reato di traffico illecito di rifiuti.
[15] “Il Gazzettino” 15 febbraio 2003
[16] Sentenza numero 1624 del 2010
[17] Ibidem